Le radici lontane delle tradizioni legate al “culto dei morti”

La diffusione di una festività tipicamente anglosassone, Halloween per intenderci, può essere una bella occasione per riflettere su quelle che sono le nostre tradizioni legate al culto dei morti, tradizioni che sopravvivono a stento, grazie soprattutto a quegli anziani che ne sono gli ultimi custodi. In molte località italiane è diffusa la convinzione che le anime dei defunti tornino dall’aldilà per vagare nelle vie dei borghi e delle città. All’epoca dei primi cristiani, queste tradizioni pagane erano ancora molto presenti e la Chiesa cattolica faticava a sradicare questi culti. Nell’anno 835, Papa Gregorio II spostò la festa di “Tutti i Santi” dal 13 maggio al 1° novembre, pensando, in questo modo, di dare un nuovo significato ai culti pagani. Nel 998 Odilo, abate di Cluny, aggiungeva poi al calendario cristiano il 2 novembre come data per commemorare i defunti. Motivo ricorrente nella tradizione popolare è ancora la credenza che in questo giorno i cari scomparsi tornino a farci visita sulla terra. Il viaggio che li separa dal mondo dei vivi è lungo e faticoso, nasce così, per ristorare i propri cari e per renderli benevoli verso i giorni che verranno, la tradizione culinaria della Festa dei Morti che accomuna per significato e finalità tutte le regioni della penisola. Ciò dimostra che, se è vero che oggi il culto commemora i defunti attraverso il suffragio e la preghiera, altrettanto vero è che molte delle antiche usanze continuano a vivere nel comune intento di accogliere, confortare e placare le anime degli avi defunti. Gli odierni dolci dei morti simboleggiano dunque i doni che i defunti portano dal cielo e contemporaneamente l’offerta di ristoro dei vivi per il loro viaggio. In Puglia, ad esempio, oltre alla consuetudine di visitare i cimiteri e portare in dono fiori sulle tombe sopravvive l’usanza di preparare la tavola per i defunti per consentire a quest’ultimi di rifocillarsi durante la notte. L’usanza della tavola per i defunti accomuna, peraltro, diverse regioni italiane, da nord a sud, ed è spesso completata anche con quella di preparare dolci per i morti. Quest’ultimi, ad esempio, in Sicilia, “sono soliti” lasciare regali per i bambini la notte di Ognissanti. Un cibo tradizionalmente cucinato nei giorni della Commemorazione dei Morti sono i ceci, come anche altri semi di leguminose. Nell’antica Grecia, durante le Antesterie, feste che duravano 3 giorni a fine inverno in onore di Dioniso si riteneva che i defunti tornassero sulla terra, l’ultima giornata era dedicata alla “festa della Pentola”, in questa giornata si cuocevano grandi pentole di civaie (ceci, fave, fagioli e altri semi come il grano) dedicate a Dioniso e Ermes, che venivano poi esposte sugli altari e offerte alle anime dei morti affinché si rifocillassero prima di intraprendere il lungo viaggio di ritorno nell’aldilà. E, cosi anche i ceci come le fave divennero parte della tradizione culinaria Romana e poi cristiana, nel Giorno dei Morti ceci e fave lesse venivano distribuiti ai poveri o lasciati agli angoli delle strade perché tutti potessero attingervi. Piatti a base di ceci comparivano (e ancora compaiono in tanti paesi calabresi) quel giorno sulle tavole di molte regioni italiane. A Monopoli, il culto della morte, è celebrato nella chiesa detta del “Purgatorio”, un vero e proprio monumento alla morte e alla speranza di una resurrezione dei corpi che appiani tutte le differenze della vita terrena. In quella chiesa troviamo Sant’Agostino che, insieme San Gregorio Magno sono i veri padri del purgatorio, di cui pongono le basi teoriche: il primo sul piano teologico,  il secondo soprattutto nel campo dell’immaginario, con visioni e apparizioni. “piuttosto purificatemi talmente in questa vita, da non aver bisogno d’esser purificato dal fuoco nell’altra. Sì, io temo questo fuoco, acceso per quelli che saranno salvati, è vero, ma che non lo saranno che passando prima pel fuoco”, sostiene Agostino di Ippona. Sempre in tema di anime defunte, interessante è la teoria della metempsicosi, sostenuta da Pitagora e dai suoi discepoli. Rifacendosi all’orfismo, i pitagorici credevano che dopo la morte, l’anima trasmigrasse da un corpo all’altro, fin quando non si fosse completamente affrancata dalla materia. Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, VIII, 4-5) ricorda come la tradizione insistesse sul fatto che Pitagora aveva attraversato più vite, di cui egli era eccezionalmente in grado di ricordarsi; la sua anima aveva peregrinato in piante e animali, oltre che nei corpi di altri esseri umani. Al di là delle manifestazioni puramente commerciali e consumistiche della Festa di Halloween, insomma, il tema della morte continua ad esercitare ancora oggi un indubbio fascino: sono giorni, insomma, in cui i vivi, hanno stabilito di ricordare e rinsaldare il legame con coloro che non ci sono più e che forse, o per desiderio o per immaginazione o per reale presenza “tornano” in mezzo a noi.

Cosimo Lamanna