San Salvatore: l’antica chiesa dei pescatori di Monopoli

Foto Cosimo Lamanna
Foto Cosimo Lamanna

Nel borgo antico di Monopoli, nel cuore del paese dove si rimane inebriati dall’essenza del bucato appena steso o dal profumo di ragù (specie di domenica) o da quello intenso della frittura di pesce proveniente dalle varie trattorie, sono conservati dei veri gioielli che rappresentano  l’identità storica di una città che deve molto al suo porto naturale. Tra questi tesori,  incastonata tra vecchie case di pescatori, corrosa ormai dal vento di tramontana e di maestrale e dalla salsedine, affaccia sul mare la splendida chiesa di San Salvatore, uno tra i primi edifici che accolgono  il sole al mattino.

Francesco Pepe, nella Guida Turistica e Culturale di Monopoli (Edizioni Zaccaria, Monopoli 1996), scrive  che “””La chiesa di San Salvatore fu probabilmente costruita nel 313 con il contributo di Costantino, come testimoniano alcune sue medaglie, rinvenute nelle fondamenta durante la ricostruzione del 1711.  Fu parrocchia dal 1573 al 1921, data in cui il titolo passò alla chiesa di S. Antonio.  Dopo essere stata abbandonata e più volte saccheggiata, oggi conserva ancora la bussola, la cantoria e l’altare centrale in marmo policromo del napoletano Aniello Gentile. Altre opere di scuola napoletana, provenienti da S. Salvatore, sono attualmente custodite in diverse chiese locali”””.

In passato,  nella chiesa di San Salvatore, dedicata a nostro Signore,  le mamme e le spose dei pescatori, in caso di avverse condizioni del mare, si riunivano in preghiera, in sofferente attesa del rientro dei loro congiunti. Quando poi le imbarcazioni erano in vista della costa, le donne manifestavano l’incontinente  gioia suonando le campane della chiesa, a ringraziamento dello scampato pericolo.  Esse avevano in custodia la chiave della chiesa e ne curavano l’ordinaria manutenzione, come la pulizia e la  tinteggiatura dei muri.

Gli antichi pescatori di Monopoli, i lavoratori del mare, come li definì Victor Hugo in un celebre romanzo dell’800’, prima dell’avvento delle moderne imbarcazioni e della strumentazione elettronica (radar, sonar, GPS satellitari), erano rappresentati da gente umile, che si arrischiava sul mar Adriatico con imbarcazioni spesso prive anche della comune bussola magnetica, anche  all’età di oltre 80 anni.

La vita del pescatore fino a qualche decennio fa era veramente dura, oltre per le condizioni di lavoro, anche perchè il pesce non era apprezzato dalla gente comune. La gente modesta, se aveva qualche soldo, preferiva piuttosto comprare qualche pezzo di carne. Al limite veniva acquistato un po’ di pesce azzurro, anche per il basso costo. Solo i signori del paese, dal palato raffinato, potevano permettersi dentici, saraghi o aragoste.

Mentre gli uomini (i mariti o i figli) erano al largo a pesca, le donne si occupavano pazientemente della realizzazione delle reti da pesca o della loro riparazione.

A fine giornata, dopo aver riposto le reti ad asciugare ed aver consegnato il pesce al compratore,  il pescatore tornava alla casa recando nel cestino del pranzo (la sporta) qualche pesce di scarso valore commerciale per la propria famiglia.

Per coloro che praticavano un sistema di pesca che occupava tutta la giornata o che si protraeva per alcuni giorni, il cibo di bordo era costituito principalmente da pasta,  pane, pesce azzurro, merluzzetti o comunque pesce di poco valore (la cosiddetta mirosca).

Quanto alla vita  familiare, l’ambizione di qualche giovane pescatore era di sposarsi con una ragazza di campagna, magari provvista di una dote sostanziosa, affinché si potesse guardare al  futuro con una certa serenità.

I figli dei pescatori, per una sorta di eredità genetica, erano tenuti a prestare il servizio di leva nella Marina Militare, con conseguente allontanamento dalla famiglia per un maggiore periodo di tempo. Tuttavia,  i pescatori con orgoglio esibivano le foto dei loro figli vestiti con la divisa da marinaio e sullo sfondo una nave della Marina Militare.

Le figlie, invece, una volta fidanzate, dovendo portare in dote almeno un piccolo corredo, si procuravano il denaro occorrente recandosi nelle campagne, sul classico carretto tirato dal cavallo, a raccogliere le olive. Le ragazze “promesse” erano sempre scortate da anziane donne, per evitare che qualche giovane potesse corteggiarle. La colazione era piuttosto misera e spesso era costruita da un semplice pezzo di pane.

Tornando alla dura vita del pescatore, quante notti passate a dormire sulle reti all’umido dei magazzini sotterranei, o momenti di pausa rubati tra una pescata e l’altra distesi sotto coperta su luridi giacigli intrisi di sudore e di salsedine.

Viso bruciato dalla salsedine e dal sole,  solcato da rughe profonde, membra doloranti per le malattie reumatiche, respiro affannato  a causa della bronchite cronica o della pleurite, con il sigaro sempre tra le labbra e il cestino del pranzo appeso al braccio,  il  pescatore iniziava la lunga giornata lavorativa quando era ancora notte  e gli unici rumori della città erano i rintocchi dell’orologio del Comune, a cui facevano eco le chiassose lamentele di alcuni cani randagi,  infastiditi nel loro sonno.

E dal porto di Monopoli, i pescatori, dopo aver preso posto nelle proprie imbarcazioni o in quelle dei loro capo-barca, partivano alla volta delle zone di pesca, che potevano essere ubicate immediatamente fuori dallo stesso porto oppure distanti anche alcune miglia.

Per raggiungere il luogo di pesca, le imbarcazioni più grandi disponevano della vela mentre quelle di piccole e medie dimensioni procedevano faticosamente a remi. Solo nel dopoguerra sono comparse le prime imbarcazioni a motore.

Per individuare il posto adatto all’attività di pesca, i pescatori, sulla base di precedenti fortunate battute di pesca o di indicazioni abilmente carpite ad altri pescatori, seguivano particolari riferimenti dislocati sulla costa o nell’entroterra,  rappresentati da due o più elementi distanti tra loro, come ad esempio un albero ed una masseria o un campanile messi in fila, mentre, durante la navigazione notturna, seguivano la posizione delle stelle e la profondità del mare. In caso di inaspettate burrasche, durante le quali ogni ondata toglieva il respiro, il pensiero correva immediatamente alla famiglia. In questi casi non restava altro che  affidarsi al proprio Santo protettore (come la Madonna della Madia o  San Francesco Da Paola) e alla propria abilità nel governare l’imbarcazione tra i marosi.

Si usciva con la barca anche con il mare grosso. Non si poteva rinunciare quando a casa c’erano delle bocche da sfamare. In pieno inverno, quando era mal tempo, inzuppati di acqua  dalla testa ai piedi a causa delle ondate o della pioggia battente,  i pescatori si lasciavano asciugare i vestiti addosso con il calore del corpo.

Quanto ai sistemi di pesca, tuttora utilizzati, oltre allo strascico (praticato prima con le paranze a vela e poi con i più moderni pescherecci a motore),  potevano essere di vario tipo, a seconda della stagione e della specie di pesce che si intendeva catturare.

Si passava dalla pesca con le reti da posta (il tramaglio ovvero a ‘ndrumacchièt), praticata normalmente con i caratteristici gozzi,  per la cattura di pesci di piccole dimensioni, come triglie, seppie, scorfani, donzelle, serrani, saraghi,  alla pesca del pesce spada, al centro dell’Adriatico o ai margini delle acque della ex Jugoslavia o dell’Albania. In questo caso, essendo sprovvisti di strumentazione tecnica di precisione, era facile sconfinare in acque straniere, correndo il serio rischio  di suscitare la collera degli slavi o del popolo delle aquile, i quali, anche se dotati di mezzi  poco efficaci, vigilavano con solerzia a difesa delle proprie risorse ittiche.

Veniva anche utilizzato il parangale per la cattura di cernie, gronchi, dentici, merluzzi, scorfani di profondità, razze, squali ed altre specie.

Talvolta venivano catturati delfini e testuggini marine, che a quei tempi erano considerate delle vere leccornie.

Nelle vicinanze del porto, veniva praticata la pesca al polpo, anche mediante l’uso di piccole anfore, nelle quali il cefalopode vi trovava rifugio.

Di notte si faceva la pesca con la fiocina,  con la schiena curva in un barile metallico, con il fondo chiuso da un vetro, sfruttando, in tempi remoti, il chiarore prodotto dal fuoco della legna  e successivamente impiegando lampade ad acetilene, alla scrupolosa ricerca di pesci dormienti o di polpi abilmente camuffati sotto la  sabbia o nascosti in anfratti oppure semplicemente addormentati  in barattoli, vasi di coccio o di vetro, presi in prestito dalla “civiltà” dell’omo sapiens.

Era di notte che veniva praticata  la pesca al pesce azzurro, con le caratteristiche lampare. Si narra di pescate miracolose, con la barca straripante di pesce scintillante al chiarore della luna, o di solenni cappotti (quando non si è catturato nulla), a causa  di reti da pesca lacerate, paradossalmente, dall’eccessivo peso dei pesci catturati.

Qualcuno, però, si arrischiava nella pesca di frodo con utilizzo di esplosivo. In questo caso si compievano delle vere e proprie stragi di pesce che per lo più andava a fondo a causa della rottura della vescica natatoria. Ma non sempre ad avere la  peggio erano i pesci. Talvolta qualche pescatore perdeva la vita o rimaneva gravemente ferito. Tuttora, qualche pescatore di frodo porta ancora i segni sul proprio corpo.

Con la diffusione del motore a scoppio, alcuni pescatori partivano dal porto di Monopoli, con modeste imbarcazioni della lunghezza di circa otto metri, alla volta delle coste abruzzesi, per effettuare delle vere e proprie  campagne  di pesca al pesce azzurro, che duravano  l’intera estate. Altri praticavano la pesca con il parangale di profondità nelle acque comprese tra il Gargano e la Jugoslavia, avendo come base il porto di Bari.

C’era perfino qualcuno che a remi, con squadre di 5 o 6 pescatori, anche anziani, si avventuravano fino a San Cataldo, sulla costa salentina, per effettuare la pesca alla cernia, partendo dopo la Madonna e facendo ritorno ai primi di novembre. Si racconta che il capobarca permetteva di bere solo quando l’imbarcazione era giunta  in corrispondenza del porto di Brindisi.

Altri pescatori si soffermavano invece nei pressi di Torre Pozzelle o Torre Santa Sabina oppure a Torre Guaceto, ove si trovano tre isolotti: lo scoglio Guaceto Maggiore, lo scoglio Guaceto Minore e lo scoglio di fuori.

I terreni antistanti Torre Guaceto, per una vastissima estensione,  erano di proprietà del principe Dentice di Frasso.

Si racconta che la principessa Dentice di Frasso, donna molto sensibile e vicina alla povera gente,  consentiva ad alcuni pescatori di Monopoli di dormire in un casolare vicino alla Torre, chiudendo anche un occhio all’attività di pesca praticata spesso di frodo mediante l’impiego di bombe.

Su di uno degli isolotti sono state rinvenute in superficie ossa e teschi umani che i pescatori, dopo averli benedetti con una preghiera e un bacio,  li  lanciavano nelle acque del mare antistante  in una sorta di sepoltura eterna.  Si narra  che durante la notte girovagava su  questo isolotto una donna con una lanterna  in mano. Per questo motivo lo scoglio veniva chiamato l’isola dei fantasmi. Talvolta, dopo aver fatto esplodere una bomba, insieme ai pesci venivano a galla alcune antiche anfore, che tuttavia venivano lasciate riaffondare in quanto ritenuti dai pescatori dei semplici cocci senza valore (i grast).  Con la bassa marea i vasi erano visibili dalla superficie del mare. Probabilmente si trattava dei resti del carico di una nave naufragata nell’antichità.

Tra l’altro, a seguito di approfondimenti archeologici, effettuati in tempi successivi sui poco distanti scogli Apani, è stato accertato, in base ai ritrovamenti, che 2000 anni circa prima di Cristo vi era un insediamento umano, dedito alla pesca, alla caccia e alla realizzazione di manufatti in argilla, osso, selce e pietra.

La nominata principessa Dentice un giorno venne a Monopoli in visita ad un negozio di antiquariato che i fratelli Brescia avevano aperto negli anni 60’ in piazza Garibaldi. Alcuni vecchi pescatori, tra cui uno senza una gamba, che stavano nei pressi del negozio intenti a riparare le reti da pesca,  riconobbero la principessa salutandola con ossequio. La principessa,  con modestia, disse loro che, essendo caduta la monarchia dopo la seconda guerra mondiare, non le spettava più il titolo nobiliare. Avendo riconosciuto alcuni pescatori che in passato avevano frequentato le coste di Torre Guaceto,  la principessa diede loro dei soldi, chiedendo il nominativo per tentare di far loro conseguire la pensione.

A volte, percorrendo le strade del centro storico di Monopoli, si sentivano gradevoli profumi di mare provenire dalla cucina di qualche pescatore. Signora, cosa mangiate oggi? Chiedeva incuriosito il viandante. Oggi si mangia la pasta con il pesce fuggito ( à past cù pesc fuscìt) . E cosa vuol dire? Vuol dire che il pesce è rimasto nel mare.  In realtà nella pentola, in mancanza di pesce a causa del maltempo, venivano cotte alcune  particolari pietre di mare ricoperte da alghe,  che producevano un discreto brodetto per condire la pasta.

Ma tornando a parlare della chiesa dei pescatori, San Salvatore è stata letteralmente depredata nel corso degli anni. E’ stato asportato tutto quanto era possibile, come il coro ligneo, risalente al 500’, ed  alcuni capitelli, letteralmente mozzati. Si sono perse le tracce dell’antico crocifisso in legno policromo, custodito in un’edicola votiva presente in chiasso Cristo, accanto alla chiesa.  Nella chiesa c’erano opere del Fracanzano, di Costantino da Monopoli ed un grande crocifisso in legno. Alcuni dipinti sono collocati in varie chiese di Monopoli, come Santa Teresa. Altri dipinti sono custoditi, invece, nel locale museo diocesano, come una bella immagine della Madonna con il bambino risalente al XVII secolo, una grande tela di Andrea Miglionico raffigurante la Trasfigurazione, due quadri raffiguranti rispettivamente S. Cosimo e S. Damiano ed infine due dipinti di Giambattista Lama (Na 1673­-1748), databili al 1715: la “Trinità con S. Gennaro, S. Carlo Borromeo, S. Biagio e S. Francesco di Sales,  e l’altro quadro raffigurante S. Eudocia eremita, tentata dal lusso e salvata da S. Michele Arcangelo che trafigge il demonio.

Come hanno potuto i santoni della politica negli anni appena trascorsi dimenticare la  storia della nostra cittadina, le nostre radici? Come è stato possibile permettere che uno dei più suggestivi luoghi di culto di Monopoli potesse essere letteralmente saccheggiato, fino a ridursi nello stato pietoso  in cui si trova attualmente? Le lusinghe del progresso non giustificano di certo il disinteresse per la chiesa di San Salvatore, abbandonata deliberatamente alla lenta ed inesorabile erosione causata dalle forze della natura, dalla dimenticanza di coloro che sono preposti alla salvaguardia del patrimonio culturale di un popolo, che per quanto possa essere preoccupato da altre priorità quotidiane, è comunque legato alle sane tradizioni. Evitando di cadere troppo nella retorica, sono proprio le tradizioni che  alimentano il senso di appartenenza della gente alla propria città.

Non dimentichiamo che la città di Monopoli, grazie ai suoi pescatori, è stata insignita il 15 ottobre 1972 dal capo dello Stato Giovanni Leone della Medaglia d’Argento al Merito Civile, per aver prestato soccorso all’equipaggio e ai passeggeri di un traghetto greco sulla tratta Patrasso-Ancona, l’Heleanna, incendiatosi il 28 Agosto del 1971 al largo di Torre Canne.

Abbiamo cercato di illustrare, senza alcuna pretesa,  una parte della storia della gente di Monopoli. Ci scusiamo con gli anziani pescatori per eventuali imprecisioni o dimenticanze.

Nino Brescia, voce di tutti gli appassionati  della storia di Monopoli (con la collaborazione di Ottavio Moretti).